Sub Rimini Gian NeriSub Rimini Gian Neri

SUBEGOIST VS SUBALTRUIST

Foto sub 2014_05_02 Argentario_046

Indagine sul rapporto col compagno di immersione

(riflessioni di Fabio Re)

Immagino che sia comune nelle società di subacquei sportivi, così come lo è sicuramente in Gian Neri, il verificarsi di due approcci molto differenti e apparentemente inconciliabili in termini di modalità di vivere l’immersione subacquea. E’ sicuramente corretto l’approccio che pone come prioritaria e irrinunciabile la sicurezza in acqua e con essa, un’intesa che lega indissolubilmente la coppia di immersione in un rapporto di attenzione, reciproco controllo e all’occorrenza di mutuo soccorso. A questo approccio essenziale, talvolta si aggiunge anche la componente tipicamente sociale di chi sostiene che il contatto con il mondo marino sia un’esperienza veramente gratificante solo se la si può condividere con gli amici, gioendo assieme, in acqua e una volta risaliti in superficie, di questa o quella specie avvistata, magari mangiandosi il meritato quadretto di spianata con la mortadella o fumandosi la sigarettina asciugandosi al sole in compagnia.

L’altro approccio sul quale vorrei riflettere però,  è quello altrettanto diffuso fra i subacquei in società, ovvero quello dei subacquei che vengono apostrofati durante i debrefing post-immersione con la frase perentoria “te ti fai troppo i cazzi tuoi!”.

Di questi subacquei in società ne abbiamo una discreta rappresentanza e ne potremmo citare esponenti anche illustri fra i fotografi subacquei e i cultori dell’osservazione naturalistica più contemplativa, ovvero coloro che sono disposti con molta, a volte troppa disinvoltura, a forzare profili di immersione in virtù di quel pesce San Pietro che  rimane solo qualche metro sotto i -42 oppure a sacrificare per qualche attimo il contatto visivo con il compagno per esplorare un tantino più a fondo quella o quell’altra cavità laddove si sospetti la presenza di un’aragosta.

Tenterò di non schierarmi troppo nel riflettere su entrambi gli approcci, ma rilevo che già dopo aver superato la ventina di immersioni all’attivo di un giovane sub, un volta presa confidenza con l’acqua, molti subacquei inizino a volere qualcosa di più dal semplice avvistare e riconoscere le specie che gli si presentano davanti e annotare l’avvistamento sul proprio logbook come fosse un semplice trofeo da archiviare in bacheca e dimenticarlo lì.

E’ chiaro che se il nostro obbiettivo di subacquei, ovvero di osservatori privilegiati della vita marina, tenderà a superare questo approccio “turistico” e un po’ povero di sostanza, mirato al solo avvistamento di “bei pesci” riuscendone al limite delle nostre capacità a riconoscerne la specie, occorrerà, durante la nostre immersioni, che iniziamo a valutare il contesto in cui ci troviamo alzando un minimo l’asticella della nostra attenzione e curiosità scientifica. Se la nostra ambizione è quella di superare la sola sfida della “fotografia perfetta” o comunque di una mera osservazione ricreativa, si apriranno enormi spazi di approfondimento e maturazione della nostra esperienza. In parole povere, la bavosa che stiamo osservando a quale specie apparitene nello specifico? E mentre la osserviamo, quale intento manifesta? Che sta facendo? E’ a caccia? Si sta nutrendo? Sta scappando da un predatore? Sta deponendo? E’ in posizione di difesa? E’ infastidita? E’ un giovane o un adulto? Sappiamo giudicare lo stato di salute dell’ambiente che ci circonda osservando le caratteristiche di questo animale o delle sue “prede” o dei suoi simbionti? Deduciamo qualche cosa in più valutando il periodo dell’anno in cui ci troviamo, la temperatura dell’acqua, la nostra quota di avvistamento e le condizioni ambientali o meteo-marine in generale? In poche parole, abbiamo o no le chiavi di lettura per poter capire quello che osserviamo decodificando il linguaggio del mare nel suo complesso?

Anche l’anossia che ha coinvolto le Piramidi due anni fa e il lento recupero del mare che dall’estate scorsa tenta di reimpiantare la propria biodiversità in quel sito non senza fatica, ci offre un racconto che supera di gran lunga il fatto che alla P12 ci sia o meno quel polpo che ci si era rifugiato, un racconto che io, personalmente, temo di non riuscire ancora a recuperare pienamente nella sua dimensione più ampia,

Gli interrogativi quindi si moltiplicano esponenzialmente e aprono la via ad un necessario approfondimento dell’osservazione dell’ambiente circostante che interagisce con quell’animale che osserviamo divenendo materia certamente più complessa e talvolta enigmatica. Questo è uno sforzo impegnativo e a volte ci può richiedere un’attenzione concentrata e totalizzante che si avvicina forse più allo studio che allo svago. Ciò è positivo e stimolante, ma innegabilmente potrebbe distoglierci dal rapporto con il nostro compagno di immersione, che probabilmente è attirato da altre cose, è stufo di aspettarci, ha un computer differente e necessita di alzarsi di quota di qualche metro per evitare l’uscita dalla curva di sicurezza o semplicemente ha voglia di pinneggiare un po’ più in là per cambiare scenario mentre il nostro sguardo è giustamente monopolizzato da quel particolare che stiamo studiando. E’ per questo che molte volte anche il rimprovero post-immersione “te ti fai troppo i cazzi tuoi!” suscita in me un pochino di giustificazionismo per “amor di scienza”.

Ma per tornare al principio di questa riflessione, occorre riflettere su quell’occhiata costante e periodica di controllo al nostro compagno, che ci fa perdere il contatto visivo con quell’essere mimetico o microscopico spesso molto difficile da identificare e ritrovare sulle incrostazioni rocciose dopo aver dato l’ennesimo OK di sicurezza. E spesso quell’occhiata periodica di controllo si rivela una vera scocciatura, una tassa da pagare alla nostra sicurezza insomma. Una tassa però da pagare senza troppe lamentele comunque la si pensi, ma in fondo come trovare un equilibrio fra entrambe le esigenze?

Credo che il segreto sia nella scoperta della complementarietà con il nostro compagno di immersione ideale. Il compagno perfetto che sa dove pinneggerai senza doversi rigirare troppe volte su sé stesso per ritrovare il contatto visivo e anche in questo ambito, posso dire che la società contempli diversi esempi di “intesa perfetta in immersione” che potrebbero essere citate come modello di equilibrio e complementarietà di coppia, E quindi la riflessione che vi propongo in fin dei conti è questa: “sub egoist” o “sub altruist” che siate, avete trovato il vostro compagno di immersione ideale?